Disegno di Legge n. 2224 del 2017 (c.d. DDL Gelli)
Difficoltà interpretative e di applicazione
25/01/2017
di Avv.to Stefano ZerboL'11 gennaio 2017 il Senato ha approvato il Disegno di Legge n. 2224 denominato "Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie". Il testo, già approvato dalla Camera dei Deputati, dovrà ritornare all'esame di quest'ultima in ragione delle modifiche ulteriormente apportate dal Senato.
L'obiettivo del legislatore era ed è quello di riformare la disciplina della responsabilità professionale del mondo sanitario e contestualmente prevedere misure finalizzate a garantire maggiori livelli di sicurezza e garanzia a favore dell'utenza. Si è messo mano tanto al tema della natura della responsabilità dell'esercente la professione sanitaria, quanto all'obbligo assicurativo delle strutture, pubbliche o private che siano quanto, ancora, alla funzione di risk management in termini di più elevati standard di sicurezza.
Nell'attesa di poter leggere la norma definitiva all'esito del voto prestato dalla Camera e nell'auspicio di evitare un nuovo rinvio al Senato, il presente commento non si pone lo scopo di tracciare un'analisi analitica dell'intero contenuto dei singoli articoli esposti nel disegno di legge n. 2224, quanto soffermarsi sulle principali tematiche che, sotto il profilo formale e sostanziale, maggiormente possono interessare gli operatori del diritto e coloro i quali si trovino a dibattere nel quotidiano con le tematiche afferenti la responsabilità medica e sanitaria, siano essi compagnie di assicurazione, strutture o, per l'appunto, singoli esercenti la professione sanitaria.
Accanto alla previsione del Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente e dell'Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità cui il primo dovrà trasmettere i dati regionali sui rischi ed eventi avversi e sul contenzioso (artt. 2 e 3), il DDL Gelli stabilisce che gli esercenti le professioni sanitarie debbano attenersi alle "buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida" che dovranno essere (art. 5) redatte da enti e istituzioni pubblici e privati, nonché da associazioni scientifiche iscritte all'interno di un emandando elenco da istituirsi con decreto del Ministro della Salute e che, sulla scorta di quanto già in parte previsto dal vigente decreto Balduzzi del 2012, costituiranno parametro per escludere o meno la punibilità dell'esercente la professione sanitaria in ambito penale.
A differenza di quanto previsto dall'art. 3 del decreto Balduzzi, l'art. 6 "Responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria" del nuovo disegno di legge introduce l'importante novità dell'esclusione della responsabilità penale allorché in occasione dell'evento, verificatosi a causa di imperizia, il medico abbia comunque seguito le raccomandazioni e le linee guida di cui al precedente articolo 5: con il nuovo testo viene eliminato il riferimento alla colpa lieve quale discrimen di responsabilità ed esimente, così escludendo la punibilità penale anche in ipotesi di colpa grave allorché la condotta sia stata imperita (quindi non nel caso di negligenza e/o imprudenza, con le difficoltà comunque connesse alla valutazione di quando vi sia stata imperizia e non anche negligenza o imprudenza).
A ciò si aggiungono le ben più rilevanti novità espresse all'art. 7 che, nell'evidente finalità di "alleggerire" la posizione del singolo esercente la professione sanitaria, porta con sé - ove confermato - non poche criticità interpretative ed operative.
Se l'obiettivo dell'art. 7 "Responsabilità civile della struttura e dell'esercente la professione sanitaria" è chiarire una volte per tutte che la struttura risponde per fatto a sé imputabile o imputabile all'operato dei propri sanitari (quand'anche operanti in regime di libera professione) ai sensi dell'art. 1218 c.c. e 1228 c.c. - con immutata applicazione del regime di responsabilità contrattuale già pacificamente oggi riconosciuto - mentre il medico è chiamato a difendersi dal paziente danneggiato invocando la ben più favorevole disciplina aquiliana di cui all'art. 2043 c.c., lo stesso sembra essere solamente in parte raggiunto/raggiungibile.
Le perplessità sul testo non nascono dalla disciplina - contrattuale - del regime di responsabilità della struttura quanto, semmai, dalle scelte linguistiche adottate del legislatore nel tentativo di ancorare alla natura extracontrattuale l'operato del singolo esercente la professione sanitaria. Secondo la formulazione dell'art. 7 comma III del disegno di legge, risponde ai sensi dell'art. 2043 c.c. il medico che abbia agito quale dipendente o in regime di libera professione intramuraria o nell'ambito di sperimentazione clinica ovvero, ancora, sulla scorta di una convenzione con il SSN. Diversamente, se il medico ha assunto un'obbligazione contrattuale nei confronti del paziente, il regime sarà ovviamente quello relativo al contratto.
Come anticipato, tale definizione non è scevra da difficoltà interpretative: a prescindere dal caso della sperimentazione clinica e della convenzione, ciò che desta perplessità è il riferimento operato nel testo al medico dipendente o al medico che abbia agito in regime di professione intramuraria. Questo perché, da una siffatta espressione, sembra rimanere esclusa la figura del medico che operi all'interno di una struttura in qualità di libero professionista (si badi, libero professionista e non in regime di libera professione intramuraria) e si trovi a prendersi cura di un paziente che non lo abbia scelto.
E' noto che la gran parte delle strutture sanitarie private abbiano al proprio interno professionisti che agiscono non già sulla scorta di un contratto di lavoro dipendente, quanto in ragione di un accordo di collaborazione che prevede lo svolgimento della propria opera da parte del medico quale, appunto, libero professionista. E ciò indipendentemente dalla circostanza che l'utente scelga di essere seguito da quel professionista; nella gran parte dei casi, anzi, il paziente che accede ad una struttura privata non conosce il medico che ha di fronte, non lo sceglie né concorda con lui obbligazioni di carattere contrattuale. Semplicemente viene seguito da quel professionista che, per l'utente, altro non è se non un medico di quella struttura.
Ebbene, posto che tali esercenti la professione sanitaria non sono dipendenti né evidentemente agiscono all'interno della clinica in regime di libera professione intramuraria avendo invece sottoscritto con essa un contratto di libera professione "pura", a che titolo essi dovranno rispondere nei confronti del presunto danneggiato? La norma stabilisce che l'art. 2043 c.c. sia applicabile all'operato del dipendente e di colui che abbia prestato la propria opera in regime di libera professione intramuraria, non altri. E soprattutto, non i medici liberi professionisti. Ma se tra questi e paziente non vi è stato nessun contratto, nessuna scelta, nessun "intuitu personae", come può essere quel professionista chiamato a rispondere per via contrattuale? D'altro canto, nel silenzio di un testo di legge che, nel delineare ed individuare le figure di coloro che possano invocare il regime aquiliano di responsabilità, ha specificamente omesso riferimento o richiamo ai medici liberi professionisti, come potrebbero questi ultimi efficacemente invocare la natura extracontrattuale delle proprie obbligazioni?
E' evidente il vulnus che l'articolo 7 del DDL Gelli porta con sé.
A ciò si aggiunga il tema della c.d. solvenza. All'interno di strutture private il paziente può chiedere che la prestazione sanitaria sia posta a carico, anziché del SSN, di fondi (per esempio assicurazioni) che confluiscono nella c.d. definizione di "solvenza". Può dunque capitare che il medico, ancorché dipendente, presti la propria opera in favore di un paziente in regime di solvenza e, accanto al proprio stipendio, tragga un ulteriore vantaggio economico, talvolta anche non così esiguo. In tale ipotesi cosa accade? Si applicherà l'art. 2043 c.c. o dovrà essere invece fatto riferimento alla natura contrattuale della prestazione?
Allo stesso modo, quei medici liberi professionisti (che abbiamo semplicisticamente qui definito "puri"), ben possono agire in favore di un paziente che non abbia scelto quel professionista e che riceva una prestazione totalmente a carico del SSN. Contrattuale o extracontrattuale? Allo stato, non è dato sapere.
Altra novità che il DDL Gelli vuole introdurre e che probabilmente porterà con sé difficoltà interpretative ed operative è quella prevista e disciplinata dal successivo art. 8 "Tentativo obbligatorio di conciliazione" attraverso il quale viene posto come condizione di procedibilità dell'azione civile il preventivo avvio di un procedimento per accertamento tecnico preventivo con finalità conciliative, così come previsto e disciplinato dall'art. 696 bis c.p.c..
Al di là delle intrinseche criticità connesse alla termine perentorio di 6 mesi previsto dall'articolo per l'espletamento di tale procedura (periodo di tempo che qualunque operatore del diritto sa bene essere nella gran maggioranza dei casi del tutto irrealistico), ciò che desta perplessità è il secondo comma di tale norma ed il suo correlarsi al prosieguo del medesimo articolo. Al riguardo si legge testualmente che "La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento. E' fatta salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell'art. 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28".
Sicché, se per un verso l'ATP ex art. 696 bis c.p.c. diviene condizione di procedibilità per promuovere un giudizio in materia di responsabilità sanitaria, rimane di fatto salva la possibilità di esperire comunque - ed in via alterativa! - il tentativo di conciliazione, ad oggi previsto come obbligatorio.
Ora, al di là dell'evidente vantaggio economico connesso alla mediazione (i cui costi sono generalmente contenuti) rispetto all'accertamento tecnico preventivo (nel quale il ricorrente deve sostenere per intero spese di giudizio rappresentate dal contributo unificato in proporzione al valore della domande e oltre a quelle, sovente onerose, della CTU), ciò che rileva in termini pratici afferisce alla previsione del successivo comma III ove è disciplinato il prosieguo dell'attività attraverso il deposito di un ricorso ex art. 702 bis c.p.c..
In linea generale e di principio è evidente la volontà del legislatore: chi anela a ottenere un risarcimento per responsabilità sanitaria dovrà prima promuovere un ATP ai sensi dell'art. 696 bis c.p.c. e, solo all'esito dell'eventuale infruttuosa transazione, potrà adire l'autorità giudiziaria con l'ausilio del più rapido procedimento di cognizione sommaria di cui all'art. 702 c.p.c. governato, sotto il profilo istruttorio, dalle risultanze probatorie formatesi in seno alla pregressa procedura.
Ma, stante il richiamo al tentativo di conciliazione attraverso il procedimento di mediazione previsto come alternativo all'art. 696 bis c.p.c., quid iuris allorché il tentativo non si concluda positivamente? Stando alla norma, si potrebbe immediatamente ricorrere anche in tale ipotesi all'art. 702 bis c.p.c. o forse si dovrà necessariamente depositare siffatto ricorso, nell'omesso richiamo ad altra forma da parte del legislatore? Ma, se così fosse, come giustificare un ricorso ex art. 702 bis c.p.c. in assenza di un pregresso ATP ma solamente di un tentativo di conciliazione non andato a buon fine? Domande, allo stato, prive di risposta certa in una od in altra direzione.
E che dire del termine - di decadenza? - di 90 giorni introdotto, sempre dall'art. 8 (comma III), quale funzionale al deposito del ricorso ex art. 702 bis c.p.c.: se tale termine, recita il testo, decorre "...dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio (sei mesi)", è evidente la criticità che potrebbe ricorrere allorché – il che non è improbabile - la relazione di CTU non venisse depositata entro il termine perentorio di 6 mesi dal deposito del ricorso ex art. 696bis c.p.c. ma, supponiamo, a distanza di 8 mesi. In tale circostanza legittimamente ci si potrebbe domandare se il termine di 90 giorni debba essere conteggiato dal deposito della CTU avvenuto successivamente ai 6 mesi ovvero dallo scadere del periodo di sei mesi che l'articolo esplicitamente definisce ed indica come perentorio.
Altro tema evidentemente a cuore dell'esercente la professione sanitaria e al quale il nuovo disegno di legge ha riservato particolare attenzione è quello dell'azione di rivalsa di cui all'art. 9.
Prima facie, il testo si pone con favore rispetto alla posizione dei medici, ancorando la possibilità di agire in rivalsa - sia essa promossa dalla procura della Corte dei Conti, dalla struttura privata o dal suo assicuratore - ad un termine di decadenza di un anno dal risarcimento del danno (ove il medico non abbia preso parte a quel procedimento), al limite della colpa grave e in ogni caso con un tetto di recupero massimo (in linea generale tre anni di retribuzione) ove la rivalsa sia avviata nei confronti di un dipendente o libero professionista in regime intramoenia. Nessun limite di risarcimento in caso di contratto tra paziente e medico, ferma in ogni caso il criterio della colpa grave.
E' chiaro che le perplessità già espresse in merito all'art. 7 riverberano anche in relazione a tale ultimo passaggio: quale limite in caso di medici liberi professionisti "puri"?
Ma, accanto a questo, val bene domandarsi come si pone la differente disciplina dell'azione di regresso fondata sull'art. 2055 c.c.? Se è vero che la struttura risponde sempre nei confronti del paziente danneggiato anche per fatto del proprio medico (dipendente o libero professionista, poco rileva), altrettanto pacifica è la possibilità che la stessa possa - per lo più allorché privata - agire (anche preventivamente e nello stesso giudizio) nei confronti del proprio ausiliario tanto con l'azione contrattuale di rivalsa, quanto in regresso ai sensi dell'art. 2055 c.c.; azione, quest'ultima, rispetto alla quale, tuttavia, nulla viene definito o disciplinato dal DDL Gelli.
Poiché l'interpretazione letterale dell'art. 9 limita l'intervento del legislatore alla sola rivalsa, si pone il legittimo dubbio se i limiti previsti per tale azione (colpa grave, di decadenza e di tetto massimo) debbano o meno essere estesi anche al regresso. Dal tenore letterale della norma sembrerebbe potersi rispondere in termini negativi a tale quesito, ma è evidente che il tema - così come le altre criticità sopra rilevate - saranno con tutta probabilità rimesse al vaglio del Giudice.