Il danno iure heridatis: irriconoscibilità del danno da perdita di vita
Sentenza Sezioni Unite n. 15350/2015
15/10/2015
di Avv. Stefano RicciardiCon la sentenza n. 15350 del 2015 la Suprema Corte, riunita a Sezioni Unite, ha apposto la parola fine sulla vexata quaestio della risarcibilità del danno da perdita da vita inteso quale lesione non del bene salute ma del diverso, ed in un certo senso superiore, bene vita.
Come noto la previsione e relativa risarcibilità di tale diritto era stata riconosciuta da una isolata pronuncia - l'ormai celebre "sentenza Scarano" (Cass. Civ. 1361/2014) - a mezzo della quale la Terza Sezione della Corte di Cassazione aveva esplicitamente riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da perdita di vita e, per l'effetto, la sua trasferibilità agli eredi iure hereditatis; in particolare nella menzionata pronuncia si era affermato che:
- "Il ristoro del danno da perdita da vita ha funzione compensativa e il relativo diritto è trasmissibile iure hereditatis".
- "La perdita della vita deve ritenersi dunque di per sé ristorabile in favore della vittima che la subisce, irrilevanti al riguardo invero essendo sia il presupposto della permanenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento che il criterio dell'intensità della sofferenza della vittima per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine";
- "Il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all'exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell'irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza."
Le suindicate argomentazioni, in netta rottura con orientamenti oramai pacificamente accolti e consolidati in Giurisprudenza tanto di Legittimità quanto di Merito, avevano di fatto creato un vulnus all'interno del sistema risarcitorio del danno alla persona a seguito del quale, ben presto, si è avvertito come necessario l'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite investite della questione con ordinanza del 4 marzo 2014 n. 2014.
Dopo oltre un anno di attesa, la Suprema Corte si è finalmente pronunciata - sentenza n. 15350/2015 - confermando il precedente - e maggioritario - orientamento giurisprudenziale ed escludendo di fatto la risarcibilità del danno da perdita da vita nonostante la differenza esistente tra lesione del bene salute e quella del bene vita.
Ha osservato a tal proposito la Cassazione "Nel caso di morte cagionata da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico "vita" che costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente. La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene "salute", pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata la morte, diverse essendo, ovviamente, le perdite di natura patrimoniale o non patrimoniale che dalla morte possono derivare ai congiunti della vittima, in quanto tali e non in quanto eredi. E poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo un brevissimo tempo dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità deriva dall'assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo."
La suddetta argomentazione - che la Corte precisa riferirsi alle sole ipotesi di morte immediata o quasi - pare invero valida anche laddove la morte segua dopo un apprezzabile lasso di tempo: in tali casi si costituirà infatti in capo al danneggiato – e quindi poi trasmesso agli eredi – un diverso danno terminale (danno biologico terminale, oppure danno catastrofale) che in alcun modo si sovrappone con quello derivante dalla perdita del bene vita.
La principale motivazione alla quale la Corte ricollega il mancato riconoscimento di tale posta risarcitoria risiede nell'impossibilità, per così dire ontologica, di configurare in capo al danneggiato un diritto al risarcimento che sorgerebbe solo a seguito della sua morte e dunque allorché il soggetto beneficiario ha oramai irrimediabilmente perso la propria capacità giuridica.
Tale argomento - che la dottrina definiva "epicureo" [1] – veniva superato nella sentenza Scarano mediante generico richiamo alla c.d. coscienza sociale in virtù della quale ad ogni perdita della vita dovrebbe seguire un risarcimento.
Le Sezioni Unite hanno obiettato evidenziando che "..la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi. Come è stato osservato (Cass. n. 6754 del 2011), infatti, pretendere che la tutela risarcitoria "sia data al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti."
A ciò si aggiunga che la sentenza n.1361 del 2014 entrava in netto contrasto con un assunto ormai pacifico del nostro ordinamento sin dal 1925 [2] - e pienamente in linea con la stessa funzione compensativa della responsabilità civile - in forza del quale un risarcimento esige sempre un pregiudizio conseguente alla lesione; diversamente si snaturerebbe la stessa ratio del risarcimento che, elargito al semplice verificarsi di un evento, assumerebbe i contorni propri di una sanzione penale identificando il pregiudizio risarcibile con la lesione subita.
Ha aggiunto a tal proposito la Corte nella sentenza del 2015 "Pur non contestando il principio pacificamente seguito dalla giurisprudenza di questa Corte (in adesione a un'autorevole dottrina e in conformità con quanto affermato da Corte cost. n. 372 del 1994) secondo il quale i danni risarcibili sono solo quelli che consistono nelle perdite che sono conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non quelli consistenti nell'evento lesivo, in sé considerato, si è affermato con la sentenza n. 1361 del 2014 che il credito risarcitorio del danno da perdita della vita si acquisirebbe istantaneamente al momento dell'evento lesivo che, salvo rare eccezioni, precede sempre cronologicamente la morte cerebrale, ponendosi come eccezione a tale principio della risarcibilità dei soli "danni conseguenza".
Ma, a parte che l'ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l'anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il "bene salute" e il "bene vita" sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità."
Né in senso contrario potrebbero valere gli argomenti, frequenti in dottrina, secondo i quali sarebbe contraddittorio riconoscere onerosi risarcimenti dei danni causati da lesioni gravissime e negarli completamente nel caso di illecita privazione della vita.
Sul punto le Sezioni Unite hanno così concluso dichiarando che "L'argomento ("è più conveniente uccidere che ferire"), di indubbia efficacia retorica, è in realtà solo suggestivo, perchè non corrisponde al vero che, ferma la rilevantissima diversa entità delle sanzioni penali, dall'applicazione della disciplina vigente le conseguenze economiche dell'illecita privazione della vita siano in concreto meno onerose per l'autore dell'illecito di quelle che derivano dalle lesioni personali, essendo indimostrato che la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi, comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore."
[1] Riecheggerebbe infatti le affermazioni di Epicuro contenute nella Lettera sulla felicità a Meneceo: "Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perchè quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perchè per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci."
[2] Cass. Sez. Unite n. 3475 del 1925, in Foro It., 1926, I, 328.