La Responsabilità sanitaria:
l'importanza della tracciabilità del percorso terapeutico
07/11/2016
di Avv.to Stefano ZerboCon l'ormai nota pronuncia n. 577/2008 la Suprema Corte ha da tempo delineato il quadro degli oneri della prova che, nell'ambito di vicende di c.d. medical mal practice, ricadono in capo all'attore presunto danneggiato ovvero alla struttura sanitaria che dal paziente sia stata convenuta per il risarcimento del danno.
Di fatto la Giurisprudenza si è ormai costantemente uniformata nell'affermare che, provato il contratto conseguente all'ingresso in ospedale ed alla cure mediche ricevute, al paziente che si assuma danneggiato da una prestazione sanitaria resa da personale ospedaliero e che aneli pretendere il ristoro del danno è richiesto di allegare – e non già provare – quello che è stato definito come c.d."inadempimento qualificato"; non quindi un semplice e generico inadempimento ma nemmeno la prova certa dell'errore e del nesso causale (che ovviamente, per il principio di vicinanza della prova, non potrebbe essere richiesta a chi tecnico non è), quanto semmai l'esposizione e l'indicazione di quel comportamento astrattamente idoneo sotto il profilo eziologico ad aver provocato la lesione ritenuta ingiusta.
Contestualmente – e proprio per effetto del principio di c.d. vicinanza della prova – alla struttura sanitaria convenuta è invece richiesto di dimostrare un invero ben più stringente onere di prova essendo chiamata – pena la condanna al risarcimento – a dar dimostrazione della causa a sé non imputabile "ovvero", dice la Cassazione, a provare di aver adempiuto ed assolto correttamente alle proprie obbligazioni.
A tal riguardo e volendo concentrare la nostra attenzione sulle difese della struttura sanitaria diventa decisivo per l'azienda essere in grado di saper giustificare le ragioni delle proprie scelte, rendendo trasparente – e soprattutto dimostrabile nell'ottica processuale – le ragioni sottese ai processi decisionali e terapeutici adottati nell'ambito della vicenda clinica che ha visto protagonista il paziente che si è poi ritenuto danneggiato.
L'aspetto della tracciabilità delle prestazioni rese in favore del paziente e, in generale, di tutto quanto abbia caratterizzato il percorso terapeutico assume così un ruolo certamente fondamentale allorché si è chiamati a far fronte ad oneri probatori tanto stringenti quanto quelli appena citati.
Basti pensare ai casi legati alle infezioni nosocomiali che sempre più spesso vengono portati avanti alle corti di merito e nell'ambito dei quali l'adozione di innovative tecniche di risk management unite alla capacità si saper rendicontare e tracciare le scelte diagnostiche e terapeutiche e delle prestazioni adottate e rese in favore dell'utente possono dimostrarsi forse l'unica chance concreta di successo in giudizi nei quali, certamente più d'altri, aleggia con forza l'ombra della responsabilità oggettiva a carico della struttura.
Ove infatti il danneggiato sia in grado di dimostrare l'insorgere di una patologia infettiva nel corso del ricovero presso la specifica struttura convenuta o ad esso immediatamente successiva è infatti evidente che l'azienda chiamata al risarcimento difficilmente potrà invocare l'assenza di responsabilità semplicemente negando il processo settico od invocando l'omessa prova del nesso causale ad opera della controparte.
Ecco dunque che l'essere in grado di dar dimostrazione di aver adottato tutti i presidi sanitari necessari a garantire la migliore antisepsi – e ciò attraverso la prova in giudizio dell'esistenza, per esempio, di specifici protocolli sanitari previsti per la profilassi anti infezione e la contestuale attestazione del loro rispetto attraverso il richiamo in cartella clinica dei relativi presidi utilizzati ad esempio per la sterilizzazione dei ferri chirurgici piuttosto che della camera operatoria – può rappresentare in concreto lo strumento per scardinare l'impostazione accusatoria avversaria ed ottenere una pronuncia che escluda l'esistenza di profili di colpa in capo all'ente ospedaliero.
L'ospedale infatti può non essere riuscito ad evitare l'insorgere del processo infettivo ma in sede processuale può in ogni caso riuscire a dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitarlo, così assolvendo all'onere della prova sancito dalla Cassazione.
E' questo un argomento certamente teorico ma che può senza dubbio avere risvolti concreti nelle sedi di merito: recentemente il Tribunale di Milano [1] ha avuto modo di mandare esente da condanna una struttura ospedaliera che in sede processuale era riuscita a dar dimostrazione documentale della profilassi anti sepsi in uso durante il ricovero dell'attore proprio – appunto – attraverso il richiamo ai protocolli sanitari anti infezione che la cartella clinica prodotta in atti dalla stessa parte attrice attestava essere stati specificamente attuati e rispettati.
Quello della tracciabilità, della trasparenza e quindi della capacità di dimostrazione del percorso terapeutico da parte dell'operatore sanitario (sia esso struttura o medico.....in quest'ultimo caso tuttavia con le ben note differenze in termini di regime di responsabilità applicabile tra 1176, 1218 e 2043 c.c.) è dunque certamente un tema che riveste una rilevanza fondamentale nel settore sanitario e – di riflesso – in quello degli studi legali che trattano la materia e che siano investiti delle difese dei convenuti.
Ciò vale quindi per il tema delle infezioni così come per quello strettamente attinente agli aspetti prettamente clinici (le diagnosi, le scelte chirurgiche e terapeutiche e così via), e vale ancor più nell'ambito di un altro aspetto fortemente critico per chi opera nel settore – sia esso, come detto, ospedale, medico o professionista legale chiamato a difendere i primi – quale quello del consenso informato.
Sono molteplici le pronunce giurisprudenziali che si sono susseguite proprio sul tema del consenso informato e che, se certamente per un verso onerano la parte che si assume lesa della non facile prova di dover dimostrare che, ove correttamente informata, la stessa non si sarebbe sottoposta alle lamentate terapie, per altro verso sempre più spesso si sono spese nell'affermare la responsabilità delle strutture che, anche nel caso di prestazione sanitaria correttamente resa, non abbiano saputo provare di aver fornito al paziente la corretta informazione.
E' tempo forse di pensare anche in quest'ottica a processi differenti da quelli ad oggi in uso e che, per esempio anche attraverso l'ausilio di web cam o di particolari incontri specificamente dedicati al processo informativo e strettamente documentabili e dimostrabili, possano dunque rappresentare le basi per un modus operandi che consenta alle aziende sanitarie di far fronte ai propri oneri processuali, anche nell'ottica di quello che sembra – allo stato – con l'emandando decreto Gelli un probabile processo di deresponsabilizzazione dei medici e professionisti verso una integrale ed unica posizione di responsabilità delle strutture.
[1] Sentenza del Tribunale di Milano - Sezione I - del 10 febbraio 2013.