APPROFONDIMENTI

LUCI E OMBRE DEL DECRETO ATTUATIVO DELL’ART. 10 DELLA L. 24/2017

commento degli Avv.ti Zerbo e Ricciardi

02/02/2024

di Avv. Stefano Ricciardi

A distanza di quasi 7 anni dall’entrata in vigore della L. 24/2017 e pur con un (poco giustificabile) ritardo sulla “tabella di marcia” originariamente prevista entro 90 giorni dall’aprile 2017, il regolamento attuativo sotteso all’art. 10 della norma è giunto alla sua versione definitiva e tradotto in un decreto già firmato dai ministeri competenti e finalmente pubblicato il 01.03.2024 in Gazzetta Ufficiale.

Atteso il tempo trascorso occorrerebbe aggiungere che “finalmente” si arriva a poter considerare esaurito il lungo iter per l’emanazione di questo decreto, cui viene attribuito il compito di determinare tanto i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie pubbliche e private e per gli esercenti la professione sanitaria quanto, contestualmente, delle c.d. altre analoghe misure, riguardanti l’ipotesi l’ente scelga di assumere in proprio il rischio.

Pur essendo perfettibile, questo decreto ha quantomeno il merito di porre taluni punti fermi rispetto ad una materia – l’assicurazione della Rc medico sanitaria – che sentiva con spiccata urgenza il bisogno di una sua più precisa disciplina.

Si pensi al ricorrente dilemma del “chi deve assicurare cosa” o alla regolamentazione delle modalità operative che le strutture senza “copertura” (vuoi perché in totale autoritenzione o perché in presenza di polizza con SIR molto elevate) sarebbero ora chiamate a rispettare o, ancora, al tema della c.d. chiamata diretta dell’assicuratore che, finalmente, non sarà più rimessa alla valutazione della giurisprudenza di merito, troppo spesso, al riguardo, dimostratasi incostante.

Senza pretesa di esaustività e volendo evitare di entrare in tecnicismi legali che richiederebbero molte più righe di quelle qui disponibili, l’obiettivo di questo primo commento preliminare è quello di offrire una sintetica analisi critica del testo pubblicato ieri.

Una delle tematiche certamente più complesse da chiarire riguardava la comprensione di chi, nello specifico, avrebbe dovuto assicurarsi e per che cosa (e/o nell’interesse di chi).

Ai sensi dell’art. 10 primo comma della L. 24/2017 è sempre risultato pacifico che le strutture sanitarie pubbliche e private dovessero assicurare la loro responsabilità civile verso terzi derivante dalle condotte di chiunque operasse al loro interno a qualunque titolo e, allo stesso modo, provvedere alla copertura assicurativa della responsabilità personale dei sanitari dipendenti e convenzionati.

L’ultimo capoverso di questo comma – che fissa inequivocabilmente l’obbligo della struttura di assicurare il medico dipendente (o convenzionato) – stabilisce che il contenuto di quella previsione non è applicabile “…in relazione agli esercenti la professione sanitaria di cui al comma 2 ”.

Disposizione, quest’ultima, che, letto il comma II dello stesso articolo, apriva la strada a dubbi interpretativi non facilmente risolvibili rispetto alla posizione del libero professionista che non avesse assunto obbligazione contrattuale con il paziente. 

Ai sensi del predetto comma II, è chiamato ad assicurare la propria responsabilità professionale il sanitario che “svolga la propria attività al di fuori di una delle strutture di cui al comma 1 del presente articolo o che presti la sua opera all’interno della stessa in regime libero professionale ovvero che si avvalga della stessa nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente…”.

Non essendo facilmente interpretabile l’espressione “…ovvero che” inserita tra l’indicazione del sanitario operante all’interno della struttura con contratto di libera professione e quella del sanitario che abbia assunto, invece, obbligo contrattuale con il paziente, sembravano ricorrere tre ipotesi di medici tenuti ad assicurarsi: 

i) il sanitario operante fuori struttura, 

ii) il sanitario operante in struttura con contratto di libera professione,

iii) il sanitario operante in struttura in adempimento di un obbligo contrattuale diretto verso il paziente.

Sicché, alla domanda “chi si deve assicurare e per cosa” non era facile rispondere in modo univoco, allorché la questione era posta da una struttura privata operante con molti sanitari inquadrati con contratti di libera professione ma che non assumevano obbligazioni contrattuali verso i pazienti (“dobbiamo assicurare anche loro?”) o, per converso, da questi ultimi (“Devo assicurare la mia rc personale?”).

Questa problematica interpretativa sembra risolta dal decreto nel quale si afferma, in sostanza, che l’unica ipotesi nella quale è previsto l’obbligo di assicurare la propria responsabilità civile professionale riguarda il medico che assuma un’obbligazione contrattuale con il paziente. Al contrario, è la struttura che deve assicurare la rc personale dei sanitari che, pur operanti con contratto libero professionale, non abbiano vincoli contrattuali con i terzi. 

In questo senso depone il comma II dell’art. 3 del decreto.

E tuttavia, se questa è la volontà del Legislatore, lo stesso avrebbe forse dovuto prestare maggiore attenzione nel definire, all’art. 1 lett. g del decreto, cosa si debba intendere per “Esercente attività libero professionale” laddove i dubbi interpretativi inerenti il secondo comma dell’art. 10 della Legge (e le tre possibili ipotesi) paiono, invero, ritornare con maggior vigore.

Non si comprende il perché si sia voluto definire l’esercente l’attività libero professionale colui che operi “…anche in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, al di fuori della struttura o all’interno della stessa o di cui si avvale in adempimento della propria obbligazione contrattualmente assunta con il paziente, indipendentemente dalla tipologia di rapporto intercorrente con la struttura o dal ruolo ricoperto”.

Se all’art. 10 della Legge l’espressione “ovvero che” poteva ingenerare la predetta confusione interpretativa, con questa definizione e con l’utilizzo della lettera “o” ( “o all’interno della stessa o di cui si avvale in adempimento della propria obbligazione contrattualmente assunta con il paziente”) pare fugarsi quel precedente dubbio (e che quindi, ai sensi del II comma dell’art. 10 della norma, si deve assicurare anche il libero professionista che non abbia assunto obblighi contrattuali diretti), tuttavia, poi escluso nel successivo art. 3 comma II del decreto in esame.

Insomma, si poteva fare meglio.

Rimanendo sulle definizioni contemplate all’art. 1 del decreto, non è irrilevante l’impatto della definizione di “sinistro” prevista alla lett. “o”.

Senza voler entrare nel merito della lunga specificazione offerta dall’articolo, ci si chiede come debba essere interpretata la comunicazione che le strutture notificano ai sanitari ai sensi dell’art. 13 della Legge Gelli.

Tale comunicazione non è contemplata specificamente nella definizione di sinistro, con la conseguenza che, alla sua ricezione, il medico si troverebbe per un verso a non poter denunciare al suo assicuratore il “danno” e rendere operativa la polizza e, per l’altro, a dover comunicare la stessa in sede di rinnovo o di sottoscrizione di nuova copertura, con il rischio concreto di non trovare garanzia per il claim che dovesse poi seguire a quella medesima comunicazione.

Sarebbe stato opportuno prevedere tale comunicazione nella definizione di sinistro o, in alternativa, imporre tra i requisiti minimi la c.d. deeming clause, capace di attrarre il futuro claim sulla polizza in essere al momento della ricezione (e denuncia cautelativa) di quella stessa comunicazione.

Proseguendo nell’analisi del testo, un ulteriore dubbio sorge dalla lettura dell’art. 3 “Oggetto della garanzia assicurativa”.

Non è dato comprendere la ragione per la quale l’obbligo dell’assicuratore rispetto alla garanzia offerta in favore della struttura debba essere limitato alla sola ipotesi di responsabilità contrattuale della stessa.

Se è vero che, ai sensi dell’art. 7 della Legge Gelli, la struttura risponde sempre ex artt. 1218 c.c. e 1228 c.c., è altrettanto vero che non solo al paziente danneggiato è data facoltà di agire tanto in via contrattuale quanto, cumulativamente, anche ai sensi dell’art. 2043 c.c., ma che la domanda di risarcimento danni richiesti iure proprio dai prossimi congiunti di un paziente, per giurisprudenza pressoché unanime, trova in realtà la sua esclusiva disciplina nell’ambito della responsabilità aquiliana.

Con la conseguenza che, per tale ultima ipotesi, la struttura si troverebbe di fatto senza garanzia assicurativa.

Allo stesso modo non pare chiaro l’ultimo capoverso del primo comma dell’art. 3 del decreto, ove si specifica che le coperture sottoscritte dalle strutture si considerano estese anche alla responsabilità extracontrattuale dei medici “…anche se scelti dal paziente ed ancorché non dipendenti della struttura, della cui opera la struttura di avvale per l’adempimento della propria obbligazione con il paziente”.

Orbene, a prescindere dal fatto che si ha difficoltà a comprendere quale sia la distinzione tra medico “scelto dal paziente” e medico che assuma obbligazione contrattuale con lo stesso (probabilmente la fatturazione…?), non era forse il caso di stabilire, molto più direttamente, che la copertura delle strutture si intende estesa anche “a tutti gli esercenti la professione sanitaria dei quali la stessa si avvalga in adempimento della propria obbligazione con il paziente, fatta eccezione per l’ipotesi degli esercenti la professione sanitaria che in esecuzione di una propria obbligazione contrattuale da loro stessi assunta con il paziente abbiano operato all’interno della struttura”?

L’art. 3 del decreto merita un’ultima considerazione: al comma 6 è introdotto l’obbligo dell’assicuratore di garantire la responsabilità (della struttura o dell’esercente la professione sanitaria) per l’intero anche in ipotesi di responsabilità solidale. La previsione ha (avrà) un diretto impatto sulle polizze assicurative oggi presenti sul mercato che, senza distinzione, escludono la garanzia per quanto l’assicurato debba rispondere al terzo in via solidale per il fatto del coobbligato.

E’ pur vero che, con tale previsione, il Legislatore altro non ha fatto se non adeguarsi all’orientamento espresso sul punto dalla giurisprudenza (di Legittimità e Merito). 

Proseguendo nell’esame del decreto e preso atto dei massimali minimi prefissati dall’art. 4, merita un’osservazione la previsione stabilita all’art. 5 con la quale viene sdoganata, una volta per tutte, l’efficacia e la validità delle coperture su base claims made : l’assicurazione dovrà operare per le richieste di risarcimento pervenute per la prima volta nel corso della vigenza temporale della polizza con estensione, per i fatti in retroattività, ai 10 anni antecedenti e, in caso di cessazione dell’attività dell’assicurato, con una ultrattività di ulteriori 10 anni.

Manca in questa previsione una presa di posizione sull’entità del massimale per i sinistri in c.d. retroattività per i quali, invece, gli assicuratori sovente contemplano un massimale c.d. “aggregato”, vale a dire unico per tutti i sinistri relativi a fatti antecedenti la data di inizio della polizza, ma con prima richiesta danni giunta in vigenza temporale della stessa. Nel difetto di una previsione specifica in tal senso è assai probabile che le compagnie mutueranno, anche sulle nuove coperture, il sistema della massima esposizione “aggregata”.

Al secondo capoverso del comma I di tale articolo 5 si stabilisce che “In caso di rinnovo, la garanzia assicurativa opera fin dalla decorrenza della prima polizza”.

Per quanto chiara, ad avviso di chi scrive tale previsione lascia alcuni dubbi rispetto al computo del periodo di “retroattività”, non essendo specificato se debba (oppure no) aversi a riferimento quello disciplinato nella prima polizza (così sembrerebbe). 

E’ pur vero che il termine prescrizionale dell’azione del danneggiato (10 anni in via contrattuale e 5 anni per l’azione aquiliana) induce a considerare superfluo il quesito, atteso che è improbabile – perché sarebbe prescritta la domanda di risarcimento – che l’assicurato che abbia rinnovato, in ipotesi per 5 anni, la polizza, possa chiedere la manleva per una richiesta giunta in vigenza temporale dell’ultimo rinnovo ma per un fatto verificatosi 15 anni prima (cioè nei 10 anni di retroattività previsti nel contratto assicurativo originario).

L’art. 6 – che disciplina il diritto di recesso dell’assicuratore – ha il pregio di impedire alle compagnie di recedere in corso d’anno dal contratto, prevedendo la sola ipotesi, irrealistica, di recesso anticipato per il caso di plurime condanne per condotte gravemente colpose dell’assicurato accertate con sentenze passate in giudicato.

Tuttavia, l’eccesso di zelo del Legislatore, che evidentemente si propone l’obiettivo di tutelare l’assicurato, sembra non raggiungere appieno il fine sperato: l’assenza di un obbligo in capo all’assicuratore di rinnovare la polizza alla sua scadenza condurrà probabilmente ad un mercato con contratti annuali. Con la conseguenza che il medico che abbia ricevuto una comunicazione ex art. 13 della L. Gelli in corso di polizza si troverebbe in difficoltà nel trovare una copertura assicurativa valida per quell’evento, laddove il claim successivo dovesse giungere oltre la scadenza della polizza che l’assicuratore non avrebbe però obbligo di rinnovare.

E’ certamente di interesse quanto stabilito all’art. 8 dove si specificano le eccezioni che l’assicuratore potrà opporre al danneggiato che abbia promosso contro il primo l’azione diretta. Esse così possono essere riassunte: 

  1. fatti dannosi derivanti da svolgimento di attività estranea alla copertura 
  2. fatti generatori verificatisi e richieste danni presentate al di fuori dei periodi di validità della copertura  
  3. franchigia e SIR
  4. mancato pagamento del premio

A prescindere dall’assenza, tra tali eccezioni, del massimale di polizza, invero però contemplato dal codice civile come delimitazione del rischio, qualsiasi operatore del diritto non può non prevedere come tali previsioni ingenereranno un intricato evolversi del contenzioso, caratterizzato da una serie di reciproche domande riconvenzionali trasversali (dall’assicuratore verso l’assicurato) o dall’avvio di separati giudizi per il recupero di quanto versato al terzo dalla compagnia pur in assenza di copertura assicurativa.

Il titolo III del decreto è dedicato alla disciplina dei requisiti minimi di garanzia e condizioni di operatività delle c.d. misure analoghe per il caso la struttura scelga di non assicurarsi e di assumere e gestire in proprio il rischio.

Le previsioni qui contenute meriterebbero un commento ed un approfondimento a sé.

Ci si limita ad evidenziare come, ad oggi, siano davvero poche le strutture in grado di garantire un’autonoma ed efficace gestione e governo del rischio assicurativo.

E’ difficile comprendere, peraltro, come possa essere possibile adeguarsi alle previsioni di tale titolo a “costo zero”: al di là della costituzione del fondo rischi (art. 10) e del fondo riserve (art.11), della certificazione degli stessi da parte di revisore e della valutazione continuativa richiesta al CVS ed al Risk Management, vi è da chiedersi come la presenza – contemplata dal decreto anche come “esterna” all’azienda – di loss adjuster, di legale e (opzionale) di attuario, possa essere mantenuta “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” (art. 16) e nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 19 sull’invarianza finanziaria.

Inoltre pare iniquo – e certamente svantaggioso per il danneggiato – l’assoluta diversità di compliance che per legge e regolamenti Ivass è imposta alle compagnie di assicurazione rispetto a quella che, nel decreto, sembra essere fissata per le strutture; queste ultime potrebbero essere spinte per ragioni economiche (il risparmio del premio) a non assicurarsi, confidando di poter gestire in proprio il rischio senza, tuttavia, averne “la capacità” e senza dover rispettare le prescrizioni ed i controlli esterni previsti invece per gli assicuratori.

Il rischio maggiore è quello di incentivare (l’incontrollato) utilizzo di analoghe misure da parte di aziende che, chiamate alla prova dei fatti, potrebbero dimostrarsi non in grado di sostenere gli esborsi economici per sinistri che, per loro natura, sono di lungolatenza e necessitano di costante valutazione anche solo per gli accantonamenti annuali.

Il tutto a danno di un paziente danneggiato che non troverebbe ristoro per il danno subito.

La struttura che dovesse optare per l’autoritenzione del rischio priva dei controlli prescritti per le compagnie di assicurazioni (banalmente anche sulla sola valutazione delle riserve), si esporrebbe al rischio di una gestione incontrollata finanche ad un – inevitabile – futuro collasso finanziario a danno finale della collettività.

Se l’obiettivo del Legislatore era quello di favorire la concorrenza sul mercato assicurativo med– mal e la sottoscrizione di un maggior numero di polizze, forse qualcosa è “andato storto”.

Non si è nemmeno valutata l’ipotesi di un abbassamento delle aliquote oggi previste per i premi assicurativi, tanto alte da rappresentare, di per se stesse, un disincentivo alla garanzia assicurativa in favore di una “analoga misura” che invece consentirebbe alla struttura di risparmiare quei costi.