L’analisi del doping nel mondo dello sport, sia esso professionistico ovvero anche dilettantistico, è un argomento estremamente delicato e dibattuto, anche in relazione al ruolo e la conseguente responsabilità dei medici in punto.
A breve corollario della disamina sembra opportuno focalizzare l’attenzione sul termine doping, molto utilizzato dai media, in relazione a periodiche indagini che interessano sportivi anche molto noti, in varie discipline, a livello internazionale.
Per doping si intende l’utilizzo o la somministrazione di sostanze attive, nonché l’adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni cliniche, né aventi scopo terapeutico, ma finalizzate al miglioramento delle condizioni psico-fisiche ed al conseguente aumento delle prestazioni sportive.
Fin dagli anni ’60 tale fenomeno è stato ben individuato e posto all’attenzione degli Organismi Internazionali, al fine di limitarne l’utilizzo, incentivando tutte le azioni volte a tutelare il valore della corretta educazione fisica e dello sport (Risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa – 1966).
Fu infatti quello il periodo storico in cui sono stati posti all’attenzione mediatica i primi “scandali” relativi al generalizzato utilizzo di sostanze vietate in particolar modo da parte di atleti olimpici provenienti dai paesi dell’ex Unione Sovietica.
In considerazione della costante diffusione ed ampliamento del fenomeno del doping, anche dovuto al progresso tecnologico e farmacologico, le Istituzioni internazionali hanno proseguito ed intensificato le attività rivolte ad arginare tali pratiche vietate e, peraltro, estremamente dannose per l’individuo che ne è oggetto e fruitore.
Si è giunti così all’emanazione della Convenzione di Strasburgo contro il Doping, del 16 novembre 1989, ratificata dall’Italia solo in data 1995, con la quale è stata fatta chiarezza circa l’elencazione delle attività considerate vietate (metodi clinici atti ad alterare ed aumentare le prestazioni fisiche atletiche), ed è stata predisposta una attenta lista delle sostanze vietate, distinte per categorie farmacologiche.
La Convenzione appena menzionata ha anche tentato di inquadrare l’ambito di applicazione, definendo all’art. 2 come sportivo, colui che partecipa abitualmente ad attività sportive organizzate.
Un primo importante passo è stato mosso, ma la definizione così restrittiva espressa ebbe la conseguenza di rendere applicabili le norme esclusivamente ad atleti professionisti o che in ogni caso svolgano la propria attività sportiva abitualmente in strutture riconosciute ed organizzate, con la conseguenza di escludere dall’applicazione tutti quei soggetti dediti alle attività sportive in modo saltuario e non inseriti in strutture sportive organizzate.
Ulteriore importante traguardo in campo internazionale è stato poi raggiunto con la Convenzione contro il Doping di Varsavia del 2002 e la di poco successiva creazione della WADA (Wold anti Doping Agency) che ha predisposto il Codice mondiale Antidoping, riconosciuto e ratificato dalle Federazioni sportive internazionali e dal CIO, ed entrato in vigore nel 2015.
Grande sforzo è ben visibile nel Codice mondiale Antidoping in ordine alla difesa e tutela del concetto di spirito sportivo, correttezza e lealtà, anche in ordine alla armonizzazione degli strumenti internazionali antidoping, con gli istituti nazionali.
Il testo prevede la realizzazione di una lista minuziosa (Proihbited List), che viene peraltro costantemente aggiornata, circa le sostanze vietate ed i metodi medici non consentiti, oltre alle attente esenzioni per documentate necessità terapeutiche.
Una importante innovazione è rappresentata dalla assolutezza del divieto di alcune determinate sostanze e metodi, con la conseguenza che l’uso, ovvero anche il solo possesso di determinate sostanze, non solo limitatamente al momento della competizione, ma anche al di fuori delle attività competitive, rappresenta una chiara violazione in termini sanzionatori.
È stata inoltre introdotta una duplice tipologia sanzionatoria, a seconda della intenzionalità, o meno, dell’utilizzo delle sostanze o attività vietate, che va da due anni di inibizione, fino a quattro anni.
Grande attenzione inoltre è stata posta nei confronti del traffico e la somministrazione di sostanze vietate o di attività proibite, le cui sanzioni sono state previste nella squalifica minima di quattro anni, fino a quella perpetua.
Nel nostro Ordinamento si è posta particolare attenzione alla lotta contro il Doping sia nel Codice di Deontologia medica, che con la nota Legge n. 376 del 2000.
Il Codice di deontologia professionale, deliberato dalla federazione nazionale degli Ordini dei Medici nel maggio 2014, ha espressamente previsto che “Il medico non consiglia, favorisce, prescrive o somministra trattamenti farmacologici o di altra natura non giustificati da esigenze terapeutiche, che siano finalizzati ad alterare le prestazioni proprie dell'attività sportiva o a modificare i risultati dei relativi controlli. Il medico protegge l'atleta da pressioni esterne che lo sollecitino a ricorrere a siffatte pratiche, informandolo altresì delle possibili gravi conseguenze sulla salute”.
Si tratta di una importante presa di coscienza di un fenomeno in costante espansione e la diretta considerazione della fondamentale importanza del ruolo del medico per arginare tale pratica (i.e. Doping).
Il Doping ha, come brevemente illustrato, avuto origine dalla tutela delle corrette attività sportive in campo professionistico, ma sempre di più l’attenzione si sta spostando anche al mondo dello sport dilettantistico, basti pensare infatti alle sostanze vietate, e decisamente pericolose, che spesso in modo autonomo, vengono utilizzate da soggetti dediti ad attività quali ad esempio il Body building, anche grazie all’utilizzo della rete telematica per il rintraccio di dette sostanze (anabolizzanti, integratori, ecc).
In questo senso, il medico riveste senza dubbio un ruolo sociale determinante circa l’attività di costante attenzione rivolta ai pazienti, sia circa il sancito divieto di prescrizione, somministrazione o consiglio di trattamenti vietati, ma anche per quella costante attività di indirizzo verso una cura dell’organismo (rivolta in particolar modo verso i giovani che si avvicinano ad attività sportive, con la spinta a “bruciare le tappe” ed utilizzare pratiche non consentite, spesso prendendo come metro di paragone prestazioni estreme di atleti famosi).
Preme porre l’attenzione inoltre sul fatto che il medico, ove decida di porre in essere prescrizioni o somministrazioni vietate, non potrà invocare alcuna esimente circa la propria responsabilità nel caso di rilascio da parte del soggetto “consapevole” di una qualche forma di consenso informato (è infatti noto che l’utilizzo di sostanze dannose comporti dirette conseguenze per il fruitore ed a questi non è consentito effettuare alcuna disposizione autorizzativa).
Il Legislatore ha quindi sentito la necessità di codificare le esperienze in campo di Doping, con la cennata Legge 376 del 14 dicembre 2000, che riprende testualmente le esperienze di cui alla Convenzione di Strasburgo del 1989 (Art 1 comma 1 - L’attività sportiva è diretta alla promozione della salute individuale e collettiva e deve essere informata al rispetto dei principi etici e dei valori educativi richiamati dalla Convenzione contro il doping, con appendice, fatta a Strasburgo il 16 novembre 1989, ratificata ai sensi della legge 29 novembre 1995, n. 522. Ad essa si applicano i controlli previsti dalle vigenti normative in tema di tutela della salute e della regolarità delle gare e non può essere svolta con l’ausilio di tecniche, metodologie o sostanze di qualsiasi natura che possano mettere in pericolo l’integrità psicofisica degli atleti.)
Troviamo nel testo normativo una definitiva definizione di doping, che qui si riporta integralmente (Art 1 commi 2 e 3 - Costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti. Ai fini della presente legge sono equiparate al doping la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i risultati dei controlli sull’uso dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche indicati nel comma 2.)
Ciò che appare necessario evidenziare, e che spesso non viene adeguatamente focalizzato nelle attività dei media, è che fatta salva la pericolosità di molte sostanze, quelle vietate rientranti nella tabella non devono essere tout court interpretate come sostante stupefacenti (l’utilizzo delle quali è sempre vietato a prescindere dalle ragioni per le quali esse vengono assunte).
I farmaci rientranti nelle classi di sostanze dopanti (come da denominazione individuata dal Legislatore) sono infatti spesso di utilizzo comune e previsti per la cura di varie patologie; il loro utilizzo e la loro prescrizione rientrano invece nella previsione sanzionatoria solo laddove vengano utilizzate o somministrate in ambito sportivo, con l’intenzione di alterare le prestazioni psico fisiche ed i conseguenti risultati sportivi.
Le disposizioni della Legge in questione hanno tentato inoltre di porre chiarezza circa l’impianto sanzionatorio di coloro i quali pongano in essere le attività vietate di cui all’art 1, e tali gravi sanzioni sono state previste all’art 9 che testualmente recita (Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire 5 milioni a lire 100 milioni chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze).
È stata prevista inoltre un’ulteriore sanzione qualora il fatto sia commesso da personale medico (Se il fatto è commesso da chi esercita una professione sanitaria, alla condanna consegue l’interdizione temporanea dall’esercizio della professione) e ciò rappresenta il particolare disvalore delle attività poste in essere dagli esercenti la professione medica, che ben dovrebbero preservare il prezioso bene della salute.
In punto la Suprema Corte si è interrogata sul particolare ruolo della figura del medico ed ha, con costante decisione, statuito che “Anche se non porta a una condanna per doping, è illecita la prescrizione di farmaci a un atleta sano al solo fine di rimetterlo in forma e fargli ottenere un posto da titolare nella squadra di calcio in cui gioca: i farmaci vanno prescritti solo a tutela della salute, in caso contrario, il medico è a rischio sanzioni disciplinari, per violazione del Codice deontologico medico” (Cass. Civ. n. 17496 del 23/8/2011).