APPROFONDIMENTI

Dell’individuazione del criterio di liquidazione del danno da ritardato risarcimento nella distinzione tra obbligazioni di valuta e di valore

26/06/2017

di Avv. Giorgio Briozzo

La sentenza n. 4681/2017 della Prima Sezione Civile del Tribunale di Milano, Dott.ssa Flamini, pronunciata in data 9 maggio 2017, già commentata in precedenza, si rivela spunto di riflessione per altre considerazioni. La Dott.ssa Flamini, infatti, fa applicazione di un criterio di liquidazione del danno per certi aspetti innovativo nella diatriba circa la cumulabilità di rivalutazione monetaria e interessi a risarcimento di un danno patrimoniale da fatto illecito, nello specifico da responsabilità medica.

E' opportuno premettere una breve schematizzazione delle diverse categorie di interessi conosciute dal nostro ordinamento, distinte in base alla funzione e alla fonte, al fine di analizzare la loro cumulabilità con la rivalutazione monetaria nelle diverse categorie di obbligazioni. La dottrina e la giurisprudenza risalenti individuano infatti una duplice categoria di obbligazioni pecuniarie, aventi quindi ad oggetto il pagamento di una somma di danaro. Tale distinzione, non espressamente indicata dal legislatore codicistico, si sostanzia tra le obbligazioni c.d. "di valore" e quelle c.d. "di valuta".
Gli articoli del codice civile che rilevano ai fini della presente analisi sono senz'altro il 1223 e il 1224, relativi al risarcimento del danno da inadempimento o da ritardo, il 1277, 1282 e il 1284, specificamente relativi alle obbligazioni pecuniarie, ed il 2056, secondo comma, relativo alla liquidazione del lucro cessante in ipotesi di responsabilità aquiliana.

Come è noto, si definisce obbligazione di valuta quella obbligazione pecuniaria avente ab origine ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, determinata o determinabile, che costituisce quindi l'oggetto immediato dell'obbligazione.
Trova applicazione rispetto a tali obbligazioni il principio nominalistico fissato dall'art. 1277 c.c., per cui si ha riguardo al valore nominale della prestazione monetaria al momento del pagamento.
Ai sensi dell'art. 1282 c.c., in conformità al principio di fecondità del denaro, i crediti di valuta liquidi ed esigibili producono interessi legali di pieno diritto. Nella giurisprudenza consolidata si ritiene perciò che nei crediti di valuta la domanda degli interessi sia sempre ricompresa nella domanda del pagamento della somma capitale.
Gli interessi di cui al tale articolo sono definiti interessi "corrispettivi", in quanto assegnati quale corrispettivo per la disponibilità dell'altrui somma capitale e della percezione dei relativi frutti civili. L'art. 1284 c.c. fissa la misura legale di tali interessi in senso forfettario a base annua.
L'art. 1224 c.c. individua invece una seconda categoria di interessi, espressamente definiti "moratori". Tali interessi hanno funzione risarcitoria dell'altrui inadempimento e sono dovuti dal giorno della messa in mora anche quando non erano dovuti in precedenza (e quindi anche per crediti non liquidi). Anch'essi sono fissati nella misura legale, salvo che fossero in precedenza dovuti in misura maggiore. Detta misura è ulteriormente incrementata al tasso fissato dalla legislazione speciale per le transazioni commerciali dal giorno della domanda giudiziale (art. 1284, comma 4, c.c.).
Si rammenta che nella classificazione degli interessi si ha riguardo ad un'ulteriore e diversa categorizzazione, relativa alla fonte della misura del tasso di interesse. Quando tale fonte si rinviene nella legge essi si definiscono legali, quando si rinviene nel contratto o in un atto unilaterale si definiscono convenzionali.
L'art. 1224, secondo comma, c.c. individua invece il maggior danno di cui il creditore può chiedere il risarcimento, non ristorato dagli interessi moratori. Tale danno, quando consiste nel deprezzamento cui è andata incontro la moneta nel lasso di tempo tra il momento in cui è sorta l'obbligazione e il giorno del ritardato pagamento, è risarcito mediante rivalutazione del relativo credito di valuta. Sul punto tuttavia, insistono due opposte posizioni giurisprudenziali.
Una prima impostazione, storicamente maggioritaria, si fondava sull'attribuzione della rivalutazione al danno emergente e degli interessi moratori al lucro cessante (cfr. Cass. 6 giugno 1981, n. 3661). Si faceva quindi contemporaneamente applicazione della rivalutazione e degli interessi legali dal giorno della mora, in cumulo tra loro.
Tale approccio è stato tuttavia oggetto di critica in quanto tacciato di eliminare qualsiasi differenza tra il debito di valuta e quello di valore. Secondo l'impostazione maggioritaria di quegli anni, infatti, si procedeva alla liquidazione del credito di valore mediante applicazione della contemporanea rivalutazione e degli interessi legali sulla somma rivalutata, come si evidenzierà nel prosieguo. Piuttosto, secondo altro successivo orientamento, ancor oggi maggioritario, si deve invece già ritenere ricompresa negli interessi moratori una liquidazione forfettaria del danno da svalutazione. In tal senso si sono espresse le Sezioni Unite (Cass. S.U. 1 dicembre 1989, n. 5299). Nell'escludere l'automatismo della rivalutazione, e richiedendo quindi un quid pluris rispetto alla semplice svalutazione della moneta quale danno risarcibile ex art. 1224, comma 2, c.c., le stesse hanno individuato una serie di parametri cui ancorare la prova del danno da mancato investimento derivante dal ritardo nel pagamento (cfr. Cass. S.U. 5 aprile 1986, n. 2368). La giurisprudenza contemporanea attribuisce quindi la funzione di automatico risarcimento del danno da svalutazione agli interessi moratori di cui all'art. 1224 (ovvero a quelli corrispettivi di cui all'art. 1282 c.c.), fissati quale "ristoro, in misura forfettariamente predeterminata, della mancata disponibilità della somma dovuta" (Cass. 30 aprile 2013, n. 9510). L'eventuale maggior danno subito in ragione della maggior svalutazione rispetto al tasso legale degli interessi è quindi risarcibile ai sensi del comma secondo purché ne sia fornita la prova (Cass. 5 novembre 2015, n. 22664; Cass. 28 marzo 2015, n. 21926 e Cass. 30 marzo 2015, n. 6401).
E' nota poi nell'ordinamento italiano un'ultima categoria di interessi, definiti "compensativi", previsti quali corrispettivo del godimento del bene di chi abbia non abbia ancora versato il prezzo della compravendita per il caso in cui il relativo credito non sia ancora esigibile, ovvero assegnati quale risarcimento del danno da ritardato risarcimento nelle ipotesi di inadempimento di obbligazioni di valore, di cui si dirà di seguito.

Si definisce obbligazione di valore quell'obbligazione pecuniaria avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro quale controvalore della prestazione effettivamente oggetto dell'obbligazione stessa, sicché la dazione del denaro rappresenta solamente la modalità della prestazione e quindi l'oggetto mediato di essa.
L'individuazione di tale somma quale prestazione per l'adempimento è perciò effettuata in un momento successivo rispetto al sorgere dell'obbligazione, e per il mezzo dell'operazione di liquidazione. La liquidazione attualizza il valore della prestazione monetaria al momento di essa, a prescindere dal valore che avrebbe potuto essere attribuito alla prestazione al momento del sorgere dell'obbligazione o successivamente, stante la naturale oscillazione del valore della moneta. La liquidazione, sia essa giudiziale o convenzionale, comporta inoltre necessariamente il mutamento dell'obbligazione di valore in obbligazione di valuta. Dalla data della pubblicazione della sentenza, infatti, decorrono gli interessi corrispettivi in quanto il credito diviene con la liquidazione un credito di valuta e, pertanto, ai sensi dell'art. 1282 "i crediti liquidi ed esigibili di somme di danaro producono interessi di pieno diritto".
Per tale ordine di obbligazioni la liquidazione ha quindi la funzione di individuare quale sarebbe la consistenza patrimoniale del danneggiato se non fosse incorso nel pregiudizio, dedotta l'attuale effettiva consistenza. Di conseguenza, in essa è insita una valutazione più ampia ed effettuata in un'unica operazione, in merito al danno emergente e al lucro cessante.
La giurisprudenza consolidata più risalente, cui in parte si conforma il giudice milanese, ha individuato la giusta liquidazione del pregiudizio patrimoniale nella consecutiva applicazione di aestimatio (liquidazione del danno al valore nominale illius temporis), taxatio (rivalutazione della somma liquidata) e interessi ex tunc sulla somma così rivalutata anno per anno. In tal modo, la rivalutazione è volta a risarcire il danno emergente in quanto è attualizzazione della perdita subita e gli interessi, definiti compensativi, a risarcire il mancato guadagno dovuto alla mancata disponibilità della somma durante il periodo di ritardo nel risarcimento. Tali interessi, del resto, non avrebbero potuto essere definiti moratori in virtù del principio in illiquidis non fit mora. Tuttavia, parte della giurisprudenza ha ritenuto che tali interessi fossero piuttosto da qualificare come moratori dovendosi interpretare l'art. 1219, comma 2, c.c. (il quale dichiara non necessaria la costituzione in mora nel caso di obbligazioni da fatto illecito) come espressione del principio mora ex re.
Ne discende che, secondo la prima teoria, gli interessi compensativi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento del danno aquiliano debbono essere attribuiti anche se non richiesti senza che per ciò stesso si incorra nel vizio di ultrapetizione, in quanto da considerare ricompresi nella più ampia domanda di risarcimento del danno. Essi decorrono peraltro dal giorno in cui l'illecito si è verificato, con contestuale insorgenza dell'obbligazione risarcitoria (Cass., sez. III, 17 febbraio 1979, n. 1058).
La differenza con la seconda teoria rappresentata non è tuttavia meramente teorica: se non si considerano tali interessi come compensativi essi non possono essere considerati comunque ricompresi nella generale domanda risarcitoria né possono essere specificamente richiesti per la prima volta in appello perché implicitamente ricompresi nella domanda di primo grado. Al contrario, per la condanna al pagamento degli interessi moratori su di una somma non liquida sarebbe necessaria specifica domanda, non operando il disposto dell'art. 1224 c.c. e dovendosi provare l'effettiva sussistenza e consistenza del lucro cessante.
Inoltre, in merito alla possibilità di domandare congiuntamente la rivalutazione monetaria e gli interessi, a prescindere dalla natura di essi, si rappresenta un certo orientamento risalente ha escluso che si potesse cumulare la rivalutazione monetaria con gli interessi qualora si verta in tema di risarcimento del danno da inadempimento dell'obbligazione di valore. In caso contrario, si incorrerebbe nell'ingiusto vantaggio per il creditore di conseguire, per il periodo per cui fossero cumulati, una sorta di duplicazione della rivalutazione della liquidazione del danno.
Sul punto è intervenuta perciò la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sent. 17 febbraio 1995, n. 1712, la quale stabilisce che la liquidazione del danno da inadempimento di obbligazione di valore debba comprendere il danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell'equivalente pecuniario che, in difetto di elementi probatori che lo identifichino diversamente, deve essere riconosciuto quantomeno nella misura degli interessi legali da calcolarsi sulla somma rivalutata annualmente dal momento dell'evento al momento della pubblicazione della sentenza che liquidi il danno. Alla somma così rivalutata devono perciò essere aggiunti gli interessi nella misura legale denominati "compensativi" in quanto aventi valore risarcitorio a compensazione (in senso improprio) del danno causato dal non aver avuto la immediata disponibilità della somma risarcitoria. Le Sezioni Unite avvallano pertanto la prima teoria rappresentata, ricomprendendo tali interessi nella categoria dei compensativi.
La fonte di tale liquidazione è da rintracciare nel combinato disposto dell'art. 1223 e 1226 c.c., in quanto il riconoscimento di tali interessi in cumulo con la rivalutazione corrisponde al riconoscimento equitativo - anche per presunzioni - del lucro cessante da ritardato risarcimento. Infatti, non avendo avuto a disposizione la relativa somma quale liquidazione dell'obbligo risarcitorio perché il responsabile non ha pagato tale somma subito dopo il verificarsi del danno imputabile alla sua condotta, il danneggiato/creditore è incorso in un ingiustificato depauperamento derivante dal lucro cessante per non aver egli potuto disporre della somma che gli spettava già nel passato, sì da impiegarla in maniera fruttifera.
Nel risarcire tale forma di lucro cessante, sulla scorta della decisione citata diversi giudici hanno in passato fatto applicazione del disposto dell'art. 1284 c.c. riconoscendo a titolo di risarcimento per tale forma di lucro cessante interessi legali sulla somma capitale rivalutata anno per anno o ancora sul capitale medio rivalutato. La Dott.ssa Flamini, invero optando per un criterio più rispondente alla corretta impostazione teorica, ha invece adottato quale parametro di riferimento per la quantificazione del danno da lucro cessante per tale specifica ragione l'indice di rendimento medio dei titoli di Stato negli anni compresi nel periodo durante il quale "si è protratto il ritardo nel risarcimento per equivalente".
Tale criterio è espressamente indicato come equitativo, rifacendosi a un dato da media diligenza (l'investimento in titoli di Stato è senz'altro tra le operazioni finanziarie più sicure e più facilmente accessibili, non richiedendo il possesso di specifiche conoscenze onde compiere la scelta d'investimento). La finalità è inoltre quella di appianare il disequilibrio che si crea naturalmente tra chi ha diritto di ottenere il pagamento di una somma a titolo di risarcimento per equivalente e chi tale somma non ha corrisposto a tempo debito, rimanendo nella disponibilità del denaro e percependone i frutti. La decisione di non conformarsi pienamente alla linea già fissata illo tempore con la sent. 17 febbraio 1995, n. 1712 risiede peraltro nella precisa volontà, in questo senso innovativa, di creare un precedente in materia di liquidazione del danno patrimoniale da ritardato risarcimento, differenziando ulteriormente il risarcimento da inadempimento di un'obbligazione di valore dal risarcimento del maggior danno derivante dall'inadempimento di una obbligazione di valuta, su cui si è ingenerato nel passato l'annoso, e per certi versi controproducente, dibattito.
Nel contesto delle obbligazioni di valore, perciò, la rivalutazione monetaria attiene al danno emergente, in quanto è la forma necessaria di attualizzazione del danno patrimoniale in termini di ritardato risarcimento che avrebbe dovuto essere evitato dal pronto risarcimento del danno. Nell'ambito della stessa obbligazione, la quota di danno da ritardato risarcimento inquadrabile nel lucro cessante (anche ex art. 2056 c.c.) è invece risarcita con tale criterio equitativo mediante il riconoscimento dei frutti del denaro che sarebbero derivati dall'investimento di esso secondo una media diligenza.
Da ultimo vale la pena annotare che, diversamente, il danno non patrimoniale è liquidato ai valori attuali della moneta e quindi non è necessario darsi luogo ad alcuna rivalutazione di esso, ben potendosi tuttavia riconoscere il danno da ritardato risarcimento nei termini suddescritti.